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Non c’è vita senza luce

Intervista a Emanuele Coccia sulla luce e sull’abitare

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Published: 14 giu 2022
Filosofo e professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Classe 1976, Emanuele Coccia è diventato da qualche anno un volto noto non solo negli ambienti accademici. Ha scritto opere profonde e allo stesso tempo accessibili, che permettono di leggere meglio la realtà e l’universo in cui viviamo. L’ha fatto ad esempio studiando il rapporto che abbiamo con la natura, in La vita delle piante (il Mulino), e poi con la vita nella sua interezza, nel suo ultimo libro per Einaudi Stile Libero, pubblicato prima in francese: Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita. Coccia è spesso in grado di anticipare temi con cui l’essere umano deve prima o poi scontrarsi, considerata la società che cambia, il pianeta che si trasforma. Ad esempio, prima che gran parte della popolazione ritrovasse una nuova dimensione domestica per via delle misure anti Covid-19, Coccia stava scrivendo Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, uscito nel 2021 per Einaudi Stile Libero. Nel libro viene proposto, con incursioni autobiografiche, un nuovo modo di leggere lo spazio e di concepire l’abitare nella casa e nelle città. “Abitare non significa essere circondato da qualcosa né occupare una certa porzione dello spazio terrestre. Significa intrecciare una relazione talmente intensa con certe cose e certe persone da rendere la felicità e il nostro respiro inseparabili”, scrive nell’introduzione.


A un certo punto nel libro Filosofia della casa dici che la casa è un “evento morale”: in che modo?

Basta pensare a ogni volta che traslochiamo: lo facciamo per vivere “meglio”. In questo avverbio c’è tutta la natura della casa: una casa è una macchina che ci permette di insufflare più bene nella nostra vita. Il suo compito è morale e non spaziale.

Nomini spesso la luce, come se fosse un ingrediente necessario per l’abitare, è così?

Non c’è vita senza luce. In realtà siamo noi stessi animati dalla luce: l’energia che cerchiamo ogni volta che mangiamo non è che una trasformazione dell’energia solare che le piante hanno immesso nella carne minerale del pianeta. Si tratta di energia “extraterrestre”, il che fa di noi creature a metà aliene. Siamo animate da una forza che non proviene da questo pianeta. E l’alimentazione è uno strano commercio di luce, che non smette mai di circolare di corpo in corpo, di regno in regno.

C’è poi il discorso del movimento. A un certo punto dici: “entrare in una casa è sempre un viaggio nel tempo e nello spazio. Una crociera intergalattica che porta in un’altra atmosfera, in un altro ecosistema”. Dici che “diventiamo migranti planetari, turisti della psichedelia altrui”. È davvero così potente lo spazio domestico?

Tutte le nuove piattaforme e i social sono spazi virtuali modellati sullo spazio domestico: si tratta di saloni o corridoi virtuali che permettono di collegarci di casa in casa, bypassando lo spazio urbano. Da questo punto di vista lo spazio domestico è il nuovo modello per pensare il comune e il planetario. Ed è nella modificazione dello spazio domestico che nasce il politico: Airbnb lo dimostra. Non pensiamo più la casa come l’opposto del comune, ma come ciò attraverso cui il comune, il politico, deve poter essere pensato e strutturato.
Filosofia della casa
Guardando verso il futuro invece scrivi che la costruzione dell’individuo nell’epoca moderna si fonda su due cardini, il lavoro e l’amore: il primo riservato alla città e il secondo allo spazio domestico. È così per tutti?

È l’idea del filosofo canadese Charles Taylor: la modernità non è il frutto di scoperte scientifiche o invenzioni tecnologiche né di conquiste geopolitiche. È il risultato della rivoluzione morale che ci ha portato a considerare cosa facciamo e chi amiamo come quanto v’è di più importante nella nostra vita. Ancora oggi per capire chi è qualcuno cerchiamo di capire cosa fa e con chi sta. Quello che sta cambiando è la divisione dei compiti tra città e casa. La casa ha preso di nuovo su di sé il lavoro, cioè la produzione della ricchezza, e questo cambierà gli equilibri radicalmente. E anche le geometrie dell’amore domestico stanno cambiando radicalmente.

Tra i vari oggetti fisici che vivono la casa, frutto del design umano, secondo te qual è quello più universale? E quale quello più curioso di tutti, più difficile da analizzare, più misterioso?

Gli abiti. Sono gli artefatti più universali: li usano e li indossano tutte e tutti indifferentemente da età, classe, genere, religione, etnia. E li indossano tutti i giorni. Tutto il giorno. È per questo che la moda è così potente: è l’arte che disegna gli oggetti più universali della nostra vita. E sono ancora gli abiti i più difficili da analizzare e i più misteriosi perché quello che è in gioco in ogni abito è la ridefinizione dell’identità di chi li porta.

In uno dei tuoi libri, Il bene nelle cose citi Locke che dice che le cose “ricevono il loro valore dall’industria dell’uomo”: parli del design?

Tutto è design in realtà. Tutto quello che ci circonda è stato disegnato da qualcuno.

A proposito di design, pur avendo passato parte della tua vita accademica in Germania, girato per le università di mezzo mondo e vivendo a Parigi, hai un buon rapporto con Milano, hai collaborato con Stefano Boeri, con la Triennale…

Collaboro molto con Stefano Boeri, e per la 23ma Triennale sto curando il catalogo e ho realizzato un video. Ma Milano per me è legata anche ad altre figure centrali con cui ho lavorato come Carla Sozzani e 10 Corso Como o Patricia Urquiola.