Inevitabilmente, i racconti si concludono con la chiusura della scuola nel 1933, a seguito di pressioni da parte del regime nazista, e con la diaspora dell’ultimo direttore Ludwig Mies van der Rohe e dei maestri, molti dei quali, come lui, emigrarono negli Stati Uniti. Tuttavia, sottolinea Rota, l’ascesa al potere di Adolf Hitler non spezzò sul più bello l’epopea del Bauhaus. In quel momento, la vicenda si era esaurita e di fatto rappresentava un’esperienza conclusa: “Non aveva più alcuna attualità, non ci sono elementi per dire che avrebbe potuto avere un futuro”.
“Gli architetti avevano sostanzialmente mandato via gli artisti”, aggiunge. “Quando pensiamo al Bauhaus, infatti, pensiamo al Bauhaus di Gropius; tanto è vero che la mostra organizzata da Gropius e Herbert Bayer nel 1938 al MoMA si intitolava
Bauhaus: 1919-1928. Inoltre, non dimentichiamo che molti dei maestri del Bauhaus lavorano organicamente con il regime nazista: lo stesso Bayer fu l’art director di Goebbels fino al 1938. Mies van der Rohe se ne andò dalla Germania nel 1936, dopo aver cercato di lavorare e aver lavorato anche nelle grandi mostre di propaganda, così come altri maestri del Bauhaus.”
Ma il Bauhaus non è solo materiale, pur importante, per i libri di storia: ha avuto influenze in momenti diversi del Novecento – Rota menziona gli architetti dell’
International Style, e più avanti gli artisti e i designer che negli anni Sessanta recuperarono le avanguardie prebelliche – e ancora nelle tendenze del mondo contemporaneo è possibile rintracciarne l’eredità.
“L’influenza sul mondo di oggi però non è più diretta”, spiega Rota, “ma piuttosto il ricordo di un modo di lavorare. È il Bauhaus inteso come incontro interdisciplinare e come teaching by learning, trovare le soluzioni attraverso il fare; detta oggi, sembra la definizione di un
Talent Garden o di una startup innovativa”.