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Lighthinking

“Il vestito è il primo spazio da abitare”

Il fashion design raccontato da una dei suoi protagonisti: intervista con Nanni Strada, Compasso d’Oro alla Carriera

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Published: 2 mag 2019
Osservatrice curiosa, mente fervida, insospettabile appassionata di motoGP. Nanni Strada è un vulcano di storie e idee maturate in un lungo percorso da fashion designer, culminato nel Compasso d’Oro alla Carriera.

“Il Compasso d’Oro alla Carriera è stato un po’ uno shock”, racconta. “Mi è stato comunicato con mesi di anticipo, alla condizione che mantenessi la segretezza più assoluta, ma soprattutto in una maniera molto diretta e imprevista, con una telefonata. Solo che era il primo di aprile! Sono stata per un po’ a chiedermi se fosse uno scherzo. Non ho saputo reagire, credo di aver balbettato qualcosa e di aver promesso che non lo avrei detto a nessuno, ma sono rimasta proprio un po’ spiazzata.”

Il premio, a cui è molto affezionata, riconosce esplicitamente la coerenza, la costanza e il coraggio della sua ricerca, sempre all’avanguardia. Sin dagli anni Sessanta, Nanni Strada ha creato uno spazio unico all’incontro tra moda e design, facendosi largo con forza in una tradizione talvolta opprimente. Ma iniziamo dall’attualità.

La Milano Design Week si è conclusa da poco, che ricordo ne conserverà?
Mi ha colpito la massa di visitatori: il mio studio è nel quartiere di Brera e sui marciapiedi non si riusciva a camminare. Vedo l’aspetto positivo per la città da un punto di vista economico, ma mi preoccupa molto che in questo mare magnum di folla e di proposte tutto poi si confonda. Mi sembra che così si penalizzi proprio la qualità del design, in generale, e di quello che avviene a Milano, in particolare.

Per risolvere il problema potrebbe essere utile il pensiero progettuale, la cultura del design in senso ampio?
Penso che ognuno debba fare il proprio mestiere. Alla base di tutto c’è la professionalità, che si basa sulla preparazione e sulla cultura; l’unico modo per far andare le cose bene poi è avere senso di responsabilità e consapevolezza. Ma il mondo della comunicazione tende a generalizzare, a far diventare tutto un trend, a svuotare gli argomenti. Pensi al tema della sostenibilità: è diventato mainstream, e c’è chi lo affronta seriamente, ma nel mio campo c’è anche chi pensa che sostenibilità sia fare gli abiti con le conchiglie attaccate. Sostenibilità invece è vedere che ci sono aziende del lusso che guadagnano un sacco di soldi sulla pelle di gente che produce in condizioni disumane. Da questo punto di vista, chapeau a Gucci: ha fatto un documento in cui struttura una strategia per controllare ciò che avviene durante la produzione.
“Il vestito è il primo spazio da abitare”

Collezione Sportmax Inverno 1971, cappotti con cuciture “a saldatura” completamente sfoderati
Abito “Oriente e Cina” free size, configurazione geometrica, venduto in pacchetto da “Oriente e Cina” (1974)
“Pli-Plà”, abiti che si aprono e si piegano come ventagli (1993)

Sin dagli anni Sessanta, Nanni Strada ha creato uno spazio unico all’incontro tra moda e design, facendosi largo con forza in una tradizione talvolta opprimente.
Quindi i grandi temi dell’attualità – l’ambiente, le disuguaglianze – sono anche i temi al centro del design?
Sì. Non sono negativa, ho speranza nel futuro, ma in questo momento siamo in guerra: una guerra dei ricchi contro i poveri, degli europei sovranisti contro quelli che vogliono l’Europa sognata dai nostri padri (e da noi stessi), e così via. Dobbiamo prendere posizione, in questa guerra, in una maniera consapevole, partecipata, positiva. Dobbiamo essere dei volontari, ognuno di noi, e fare tutto quello che è possibile: offrire la nostra creatività, cercare di coinvolgere chi ci ascolta nella direzione della consapevolezza. Questa è la missione del designer oggigiorno.

Visto che siamo in tema di politica, parliamo di corpi. Nell’arco della sua carriera, è cambiato il modo di guardare ai corpi, femminili e maschili. Il suo punto di vista sul tema è cambiato?
In realtà, no. Io sono una figura abbastanza ibrida, nel senso che ho sempre avuto la testa nel mondo del design e l’azione nel mondo dell’abbigliamento. Quando ho intrapreso questo percorso, la mia prima motivazione è stata slegare l’abito dalla tradizione sartoriale, che era molto impositiva per la figura femminile. Il mio obiettivo era pensare il vestito come il primo spazio da abitare, come si abita una casa o una stanza.
“Il vestito è il primo spazio da abitare”

Tuta ignifuga per piloti e appassionati di motociclismo, Collezione Abarth System (1984)

Quindi il corpo viene prima del vestito.
Assolutamente. Le faccio un esempio stupidissimo, che però è molto significativo. Sono appassionata di motociclismo, e naturalmente il mio idolo è Valentino Rossi: lui ha una tuta che è un capolavoro di design, di invenzione, di tutto, però il modello di questa tuta deve avere qualcosa, perché quando Valentino sale sulla motocicletta, si prende con le mani il cavallo della tuta e lo tira giù. Questo vuol dire che la misura dal punto del cavallo, su cui sta seduto per un’ora in condizioni estreme, e il punto del collo, dove finisce la tuta, non è perfetta. Mi sono detta che vorrei proprio fargli una tuta, per risolvere quel problema lì! Insomma, non penso solo ai grandi ideali, penso anche alla vivibilità dei vestiti.

Il design spesso parte dall’analisi delle esigenze consapevoli o inconsapevoli dei consumatori. Valentino Rossi è un consumatore molto particolare e può vederlo in televisione, ma per quanto riguarda il pubblico più ampio, come studia quelle esigenze?
Rispondo con un dato autobiografico. Sono stata fortunata e ho avuto un’infanzia felicissima. Negli anni della guerra e fino ai miei 6 anni sono stata sfollata a Bellagio, sul Lago di Como; lì, la mia famiglia materna aveva un ristorante molto conosciuto, così sono cresciuta in un locale pubblico, in mezzo alla gente. La mia famiglia era molto ospitale, molto aperta. Poi sono andata in Argentina, dove sono rimasta fino ai 14 anni, e Buenos Aires era una città multiculturale, perché c’erano tutti quelli che erano fuggiti dall’Europa; anche questo mi ha portato ad avere una necessità di comunicare con gli altri, di conoscerli. Ora soffro perché sui mezzi pubblici, che frequento moltissimo, non usando assolutamente la macchina, stanno tutti lì col cellulare in mano, mentre io se posso scambiare una parola lo faccio volentieri. Nei miei viaggi ho conosciuto molte persone, e questo, per rispondere alla sua domanda, mi ha sempre dato un po’ un termometro dei desideri.
“Il vestito è il primo spazio da abitare”

La Casula, progetto di abito talare (foto di Alessandro Viero). “Abito di Luce” (2006) esposto nella mostra SKIN & BONES. Parallel Practices in Fashion and Architecture al MOCA di Los Angeles (2006), a The National Art Center di Tokyo (2007) e a The Somerset House di Londra (2008

Che ruolo ha per lei la luce nel design di moda?
Uno dei progetti che ho amato di più e che ho fatto con più passione è stato un abito talare, la casula, per una fiera di prodotti della liturgia a Vicenza. Il mio interlocutore era monsignor Santi, un intellettuale straordinario, che mi ha fatto dei racconti veramente interessanti sulla liturgia, nei quali la luce aveva un’importanza incredibile – l’illuminazione delle chiese infatti è un tema molto importante e sofisticato – e io ho pensato come prima cosa che dovevo fare un abito di luce. La casula medievale era un’ellisse di feltro o di panno, e io ho pensato di disegnare due ellissi perfette: una esterna bianca, il colore neutro per tutto l’anno, con dei tagli al laser che lasciassero intravedere l’ellisse interna, colorata in base alle varie epoche liturgiche, quindi verde, viola, oro, o rosso. Al tessuto di base degli strati interni ho fatto applicare una lamina metallica colorata grazie a un processo di calandratura e ne è venuta fuori una superficie che rifrangeva la luce molto fortemente, tanto che l’ho fatta un po’ attutire per renderla più misteriosa, più bella, più sofisticata. E in effetti quando questo abito veniva indossato e il prete si muoveva per alzare il calice, per muoversi, c’era questo brillio, questa luminosità, e l’idea di questa luce per me era molto simbolica.
“Il vestito è il primo spazio da abitare”

“Gotanda”, lampada per Sirrah, iGuzzini realizzata in tessuto di lino tramato con rame (2002)

Ma alla fine proporrà davvero a Valentino Rossi di ridisegnargli la tuta?
Non voglio disturbarlo perché sarà già oberato di gente che gli scrive, non voglio perseguitarlo. Ho avuto molta dimestichezza con gli abiti del motociclismo perché ho fatto una collezione per Yamaha, a metà anni Ottanta. Serviva una collezione di abiti per motociclisti cittadini, perché a Tokyo molti vanno in ufficio con la motocicletta. L’abito dei motociclisti è una sfida perché deve tenere insieme elementi molto contraddittori come la velocità estrema, il pericolo, le intemperie, le temperature, la visibilità. È un bel rebus, in cui tutti si danno da fare in maniera creativa, ed è proprio la sfida che ti porta a fare i record. Anche il mio abito senza cuciture, a suo tempo, è stata una sfida, e a me piace competere, soprattutto in squadra. Allora ci si mette in gioco con i propri interlocutori e ci si diverte, perché il progetto è anche grande divertimento.