Cerith Wyn Evans è nato in Galles nel 1958, ma vive e lavora tra Londra e Norwich. Si è formato alla Central Saint Martins School of Art e al Royal College of Art di Londra, allievo degli artisti John Stezaker e Peter Gidal. La sua carriera inizia durante gli anni Ottanta, con la realizzazione di cortometraggi sperimentali. A partire dagli anni Novanta, però, abbandona la carriera di filmmaker per dedicarsi alla realizzazione di sculture, installazioni, fotografie e interventi site-specific o performativi, in cui emerge fin da subito la volontà di creare opere metaforiche che lo spettatore deve interpretare.
EXIT, Cerith Wyn Evans, 1994
La sua ricerca si caratterizza soprattutto per l’uso della luce e del suono, due elementi effimeri che, montati insieme, danno vita a opere in cui la dimensione temporale, e il concetto di durata della fruizione dell’opera stessa, sono centrali. Spesso le sue opere sono dei veri e propri processi di trasformazione: partendo da un bagaglio complesso di citazioni e riferimenti culturali - che spaziano dalla letteratura alla musica, dalla filosofia alla fotografia, ma guardano anche alla poesia, alla storia dell’arte, all’astronomia e alla scienza in generale - Wyn Evans racconta il Ventesimo e Ventunesimo secolo come un sistema complesso da decifrare. Le forme che inventa sono inedite, e questo è possibile grazie alla trasformazione dei materiali testuali in linguaggio luminoso.
I curatori Roberta Tenconi e Vicente Todolí raccontano la mostra
Nel mondo creato da Evans la luce dialoga con il buio, con i suoni e con lo spazio circostante.
Si è da poco conclusa al Pirelli HangarBicocca di Milano “....the Illuminating Gas”. Non una retrospettiva, ma un percorso espositivo immersivo per raccontare degli elementi chiave della ricerca di Wyn Evans: la luce. Curata da Roberta Tenconi e Vicente Todolí, la mostra si è focalizzata sui suoi lavori dal 2015 al 2019: ventiquattro opere, tra sculture, complesse installazioni monumentali e nuove produzioni, hanno occupato interamente gli oltre cinquemila metri quadrati delle Navate e del Cubo di Pirelli HangarBicocca. Uno spazio enorme, carico di forte magnetismo. In questo articolo su
Artribune, Wyn Evans stesso afferma che, quando ha visto per la prima volta lo spazio vuoto, ha pensato: «adesso io che cosa dovrò fare? Mi sono sentito come quei piccoli animaletti marini che, sul fondale, sono obbligati ad abbandonare la propria conchiglia per cercarne una più grande. Ho dovuto abbandonare alcune produzioni per muovermi oltre. Ho dovuto addentrarmi in questo magniloquente spazio che per me è una sorta di cattedrale senza alcuna fede. È un tempio di una religione dimenticata. [...] Succede sempre quando ci si trova davanti troppa magnificenza, sono costantemente impressionato dalle proporzioni, dalle scale di questi lavori, installati in HangarBicocca. Non mi abituerò mai, credo».
Un lento e costante pulsare di sette imponenti colonne luminose alte venti metri che fa da contrappunto al sibilo emesso da trentasette sottili canne di vetro; una serie di sculture al neon che dialogano con un intrico chilometrico di rette e curve luminose; la traduzione dei movimenti del teatro giapponese Noh in un linguaggio luminoso: nel mondo creato da Evans la luce dialoga con il buio, con i suoni e con lo spazio circostante e somiglia alla natura descritta da Baudelaire in Corrispondenze, ricca di segreti rimandi tra un elemento e l’altro, una foresta di simboli in cui, al centro, non sta però il poeta, ma il visitatore, immerso in un’indimenticabile esperienza sinestetica.